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Work in progress: I sogni

WORK IN PROGRESS...Che ben vengano i sogni a destare la nostra fantasia...

WORK IN PROGRESS...Che ben vengano i sogni a destare la nostra fantasia... - www.angelovalenzano.it

Il tempo di sognare, nostro malgrado, o per fortuna, ci appartiene inderogabilmente  e ci accompagna per sempre nella nostra vita, perché è tutta quella parte del nostro tempo che lotta contro la nostra ragione, capace di destare la nostra fantasia,  risvegliare i nostri ricordi e tempestare il cuore di momenti, pur se fugaci, sereni ed irrequieti che sanno  accarezzare o sferzare  la nostra anima. Saper risvegliare così dal torpore questa nostra vita frenetica che lascia ben poco spazio all’immaginazione e a tutto quello che esula dalla razionalità è sempre stata una prerogativa di una vita così, semplicemente vissuta. Quante volte ci capita di restare fermi a fissare un ricordo o un pensiero lontano dai nostri occhi ma galoppante nella nostra mente e poi ricordare particolari che pensavamo fossero secondari e invece ci accorgiamo che sono capaci di stuzzicare il cuore tanto da farlo fibrillare ma non certo patologicamente, e poi, senza farci più caso, sentirsi dire “quello sta sognando ad occhi aperti?” E che cosa sono allora i sogni? Di quella minima parte dei nostri sogni, che al risveglio ci restano impressi  e che  vorremmo vivere dal vivo se ci hanno lasciati di buon umore oppure cancellarli dalla nostra mente, se ci hanno perseguitato per tutta la notte non lasciandoci dormire, poi ci accorgiamo che in  un modo o nell’altro non ci riusciamo mai!  Ecco allora, in questa mia raccolta, appunto di  sogni ad occhi aperti , ho voluto raccontare quei momenti magici che la vita ci offre e che vorremmo non finissero mai oppure che finissero in un altro modo, sognando di essere in un posto tanto desiderato ma impossibile da raggiungere, e quindi ci inventiamo mezzi di trasporto assurdi ed improponibili per la  nostra ragione, sogniamo di aiutare qualcuno a noi caro e soddisfatti poi di esserci riusciti restiamo a complimentarci con noi stessi quando gli occhi si aprono per davvero, e che dire quando il sogno prende una piega piacevole e vorremmo caparbiamente  peccare d’amore  con una donna vista in tv o su un giornale che come un flash ha colpito gli occhi e poi, sveglio, contento lo racconti pure alla tua donna per ingelosirla e per consolarti sapendo che lei non ha tempo per questi tuoi sogni e per queste tue fantasie. Poi ci sono quei sogni impegnati, per una nobile causa, quei sogni che ti fanno eroe di lotte per il bene contro il male, perché lì, nei sogni, proprio il male e l’ingiustizia difficilmente prendono il sopravvento e se proprio ci succede di essere finiti in un tunnel senza via d’uscita,  allora sappiamo subito come uscirne,  staccando la spina, e aprendo gli occhi e contando i battiti nel nostro cuore che rimbalzano impazziti nella testa. Ecco quindi questi sogni prendere le sembianze di momenti vissuti o che vorremmo vivere in contesti di una storia immaginata della nostra vita, intrecciata con eventi realmente accaduti nella storia dei tempi magari immaginandoli un po’ ritoccati e ridipinti a nostro piacere e in contesti un po’ falsati o pittoreschi ma sempre lì, in mezzo a quei sogni, ci troveremo sempre donne e uomini, pur se miserabili, bugiardi, violenti o amanti, geniali ed infaticabili, che a modo loro alla fine avranno plasmato la storia e la vita di quel sogno. E l’unica realtà che poi riesce sempre a sopravvivere, appena apriamo gli occhi e ricominciamo a vivere in questo nostro tempo, è quella nostra eterna e imperscrutabile voglia di ricominciare, di combattere, di vincere e mai di perdere, di fantasticare, di sorridere , di giocare, la nostra voglia di sognare!  

Angelo Valenzano         

Un grido di meraviglia

Un grido di meraviglia - www.angelovalenzano.it

Dopo quella Grande Guerra che costò la vita a tanti amici sul fronte e che mi lasciò vivo solo per miracolo, decisi di rimanere a Roma, anche se i tumulti e la situazione non certamente rosea di quel periodo mi avrebbero magari spinto a ritornare nella mia cara  amata Puglia. Ma a Roma avevo modo di approfondire i miei studi di archeologia e fu proprio per questa mia ostinazione che conobbi il professor Mariani, direttore del Bollettino della Commissione archeologica comunale di Roma, ero entusiasta di poter lavorare insieme ad uno dei massimi esponenti di archeologia. Tanto mi valse imparare da lui  esperienze di scavo e catalogazione  di reperti archeologici che durante le ore libere assillavo il mio amico di stanza, Alessandro, architetto che pur avendo genitori pugliesi era nato a Il Cairo. E con lui trascorrevamo le serate ad immaginare come sarebbe stato bello andare lì in Egitto in quella Valle dei Re a partecipare agli scavi di cui tanto si parlava anche in quel giornale dove anch’io scrivevo. E una sera Alessandro, forse stufo di sentir sempre la stessa tiritera, mi disse che se volevo potevo andare con lui a Il Cairo e poi mi avrebbe  fatto conoscere degli amici di suo padre che avevano lavorato con Howard Carter lì, nella Valle dei Re. Non ci pensai neanche un attimo, mi misi subito a radunar le mie cose e il giorno dopo chiesi il permesso al direttore del giornale di potermi allontanare per qualche giorno o forse di più, e ricevuto pieno assenso partì con Alessandro verso il tanto amato Egitto. Era ottobre del 1922, l’estate stava finendo da noi a Roma ma lì sembrava che fosse ancora stagione calda quando sbarcammo al porto di Alessandria, c’erano gli amici di Alessandro ad aspettarci e ci mettemmo subito in viaggio. Giungemmo la sera, con mezzi di fortuna, nella Valle dei Re. In quei giorni ebbi modo di parlare col signor Carter, una persona a modo e molto preparata, che mi espose tutti gli scavi dell’intera Valle che aveva suddiviso in settori, mi raccontò del finanziatore degli scavi, un tale Lord Carnarvon, appassionato d’Egitto e soprattutto degli oggetti recuperati. Mi confidò la sua sfrenata passione per la ricerca delle tombe dei due faraoni della XVIII dinastia che in quella Valle non era riuscito ancora a scoprire, quella del faraone Akhenaton e di suo figlio Tutankhamon, il faraone fanciullo. E proprio in quei giorni aveva ricevuto una lettera dal Lord inglese di conclusione delle ricerche perché troppo onerose e poco remunerative in fatto di ritrovi di reperti. Vidi Carter molto turbato e lo convinsi a chiedere ancora del tempo al Lord perché ormai c’era rimasto solo un settore da scavare ed io mi offri di dare ben volentieri una mano. Ricevemmo così più che il consenso dal mecenate, un vero e proprio ultimatum per un’altra stagione e così tutti ci rimboccammo le maniche, c’era da mettere sotto sopra tutto questo ultimo settore, e senza tregua tutti ci mettemmo al lavoro. Quando quel 3 novembre iniziammo a scavare di fronte alla tomba di Ramesse VI, grande fu la gioia quando dalla sabbia riaffiorò un gradino che presto poi si trasformò in una scala che giungeva in basso ad una porta con ancora intatti i sigilli della necropoli, segno che non era mai stata violata dalla sua chiusura. Carter allora volle richiamare in Egitto  Lord Carnarvon perché sentiva di aver trovato quella che da tanti anni stava cercando. Che giorni di festa e di grande soddisfazione, eravamo tutti impazienti di poter aprire quella porta. Quel giorno finalmente arrivò, quando Carter e Lord Carnarvon diedero l’ordine  di fare un foro in quella porta per ispezionare l’interno e poter appurare che il corredo funerario fosse intatto. Ma intanto la sera giunse  a stemprare le nostre eccitate menti e con un po’ di stanchezza e tanto orgoglio tornammo nelle tende a dormire, il giorno dopo sarebbe stata una giornata memorabile. Alle prime luci dell’alba tutti insieme ci riversammo dinanzi a quella porta, l’aprimmo tra lo stupore e qualche grido di meraviglia, dentro notammo subito la maestosità del corredo, i vasi contenenti gli organi e le viscere e il sarcofago di quel  faraone fanciullo. Era la tomba di Tutankhamon. Rimase lì quella tomba intatta e ancora sigillata per altri due anni perché, come da accordi con chi aveva rilasciato la concessione degli scavi, si doveva prima di tutto procedere alla catalogazione  di tutti i reperti e con  l’invio al museo del Cairo per esporli al pubblico. Due anni rimasi tra quella sabbia, forte era la voglia di aprire quel sarcofago, e forte era anche il mio impegno in questo lavoro per il quale avevo studiato e che mi dava sempre grande soddisfazione. Gli anni così passarono finché si ricevette l’ordine  di aprire quel sarcofago. Era il 16 febbraio del 1924 quando tra un silenzio profondo sollevammo quella pesante lastra e la luce brillò nel sarcofago che rivelò all’interno la mummia intatta del faraone bambino contenuta in un sarcofago d’oro massiccio di più di 100 kg. con il volto coperto da una maschera anch’essa di oro massiccio riproducente le sembianze del fanciullo. Ci sfuggì dalle labbra un grido di meraviglia  alla vista che si presentò dinanzi ai nostri occhi. Carter sempre freddo e scarno di emozioni esternanti, ci abbracciò tutti ringraziandoci e poi tornò a scrutare quella mummia quasi fosse un pupillo da coccolare e col pennello lievemente l’accarezzava cercando di far risplendere più del sole stesso quell’oro accecante. Dopo quella giornata indimenticabile rimasi lì, in Egitto, con lui ancora per qualche mese prima di ripartire per l’Italia, che sapevo attraversata da momenti poco felici di una dittatura spietata che lasciava  poco spazio alla cultura e tanto all’industria della guerra. Alessandro, quell’amico che mi accompagnò in Egitto era divenuto un famoso architetto a Roma, con lui trascorrevo ancora lieti serate raccontandogli del suo Egitto e della mia passione per quei suoi vecchi antenati . Tornai  nella redazione del Bollettino archeologico,  pur se i tempi ormai cambiati ci imponevano schemi di vita e modi di pensare fuori dalla norma e fuori da ogni contesto di libertà.  E ancora  soffro al pensiero di aver preferito il mio paese a quelle sperdute, calde e maestose sabbie di quel deserto. Poi la notizia della morte di Carter mi colse di sorpresa quando ne parlarono su tutti i giornali . Avrei voluto scambiare con lui ancora qualche chiacchierata su quella sabbia rovente e sotto quel sole che ci accecava, ma mi basta avere di lui quel ricordo indelebile della sua passione e della  sua indomabile voglia di cercare, di conoscere, di credere in tutto quello che ognuno di noi sente di poter ottenere.

 

 

 

La voglia di riscossa

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Le elezioni politiche dell’aprile 1924 si erano svolte sotto il segno della violenza con una legge elettorale che garantiva ai fascisti, con il 25% dei voti, il 75% dei seggi in Parlamento. Quei deputati erano solo una trentina nella precedente legislatura ora erano diventati trecentocinquanta. I nostri deputati dell’opposizione relegati solo ad una piccola ed  esigua minoranza. Io facevo parte della sezione del Partito Socialista in Piazza di Spagna e quando da noi veniva il segretario della nostra sezione, Giacomo Matteotti, ad esporci quegli appunti che avrebbe letto o a volte dopo aver esposto nella seduta programmata nel Parlamento, noi eravamo entusiasti di sentirlo e e spesso lo interrompevamo per subissarlo di applausi, e questo a lui non andava bene, perché diceva di perdere poi il filo del discorso, ma come si faceva a non condividere con lui quelle sue idee esposte cosi linearmente e comprensibili a tutti noi? Agile, elegante, un oratore rigoroso e robusto, di quelli che non concedevano nulla alla demagogia e non conosceva stanchezza e sempre poco incline agli entusiasmi ma tanto resistente alle delusioni,  era tra i dirigenti più seri e capaci che avessimo mai avuto lì in quella sezione romana. Ai primi di giugno vidi per l’ultima volta il nostro segretario mentre esponeva dettagliatamente tutto il suo discorso che aveva tenuto il 30 Maggio al Parlamento e mi rimase impresso la sua semplicità e sicurezza nella esposizione e ci ricordò come tra insulti e minacce varie, del tipo, ”venduto”, “traditore”, “vattene in Russia”,  persino il Presidente della Camera lo invitò a parlare “prudentemente”, ma lui aveva lì tra quelle carte che aveva letto nel Parlamento una vera e propria bomba. Aveva deciso di  rinnegare quelle votazioni e quei risultati ottenuti con le intimidazioni e  con lo spargimento di sangue per le strade e aveva chiesto che la raccolta delle liste avvenisse alla luce del sole e senza violenze d’ogni sorta, al che la sinistra s’alzò in piedi e lo applaudì mentre da destra, dopo aver provocato in quell’aula un vero e proprio cataclisma, continuava solo con gli insulti. E lui, per tutta risposta, spavaldo e fiero,  in conclusione della sua orazione invitò quei mistificatori a preparargli pur la sua orazione funebre. Noi che eravamo lì ad ascoltare così entusiasti tutta questa esposizione, ci rattristammo un po’ e gli chiedemmo come mai avesse chiuso la sua orazione in modo così funesto, e lui con il suo fare elegante e deciso ci disse che se avessero fatto del male a lui, non avrebbero mai potuto cancellare le sue idee  perché sarebbero sempre rimaste lì nella nostra sede e fuori per le strade e in ogni luogo dove si lotta per la libertà e per la giustizia. Certo erano giorni terribili che ci aspettavano perché in giro già si diceva che Matteotti aveva firmato la sua condanna a morte e quelle squadre fasciste terrorizzavano Roma con ripetuti rastrellamenti e manganellate per strada, e olio di ricino a più non posso per mandar giù il loro veleno, ma in noi al contrario cresceva il coraggio e la voglia imperitura di riscossa. Faceva caldo quel 10 Giugno del 1924 e con la mia fidanzata avevamo deciso di fare una passeggiata sul lungo Tevere  all’ombra di quei maestosi platani scansando  quel sole che già voleva ricordarci  l’estate che da lì a un po’ sarebbe arrivata. Vidi venire da Via degli Scialoia un uomo vestito di chiaro senza cappello col cedere veloce e una borsa sotto il braccio, ma era molto lontana da noi per poterne delineare meglio la fisionomia e non feci in tempo a pensare chi fosse quell’uomo perché una grande Lancia scura gli tagliò la strada obbligandolo a fermarsi per strada e dopo ripetuti calci e pugni lo presero di peso e lo caricarono in macchina invertendo la marcia e correndo verso la Flaminia. Rimasi atterrito tra le grida della mia fidanzata che non avrebbe mai voluto assistere ad un così efferata violenza, e per un attimo la consolai anche se in cuore mio c’era tanta rabbia perché impotente a tutta questa violenza, e decidemmo di ritornare a casa. Mentre ci allontanavamo dal lungo Tevere, ripercorrendo quella strada che porta verso Piazza del Popolo vidi per terra una tessera ferroviaria, la raccolsi e con stupore vidi che era quella di Matteotti, e allora con le mani tra i capelli piansi anch’io, avevo assistito al rapimento del nostro Segretario e quello che mi fece più rabbia fu proprio  non aver potuto far niente per evitarlo. Tra il dolore e lo sconforto di noi compagni e della sua famiglia passarono due mesi prima che un cane scoprisse quel cadavere sepolto alla male in peggio dopo averlo sfigurato e quasi decapitato. Furono giorni bui di persecuzioni e di resistenze, di processi farsa e di assoluzioni pilotate. Il rancore cresceva,  l’odio montava, la ribellione ferveva, quella tragedia lasciò in tutti noi un segno indelebile del suo coraggio, della sua intelligenza e del suo sacrificio e in ognuno di noi la voglia di riscossa che non mancò mai in quei vent’anni a venire.

 

Tra vent'anni

Tra vent'anni - www.angelovalenzano.it

Erano da poco passate le nove quando i miei figli passarono da casa dopo aver accompagnato il fratello romano all’aeroporto. Il terzo figlio, il più piccolo viveva a Roma ormai da diversi anni e ogni due o tre settimane ci veniva a trovare. Ci portava la porchetta romana e noi gli facevamo trovare pietanze a base di pesce che a lui piaceva tanto. Lone Wolf lo chiamavo perché se ne stava sempre solitario però era di una intelligenza unica, tutto suo padre! Erano stati giorni lieti in compagnia, tra i nipoti che tenevano viva la nostra vita e i nostri figli insieme come un tempo a scherzar tra di loro e ad abbracciarsi come quando erano bambini, è questo era già motivo di orgoglio per noi genitori nel vederli così affiatati, mai litigiosi e sempre pronti a prendere le difese l’uno dell’altro. Ecco perché poi, dopo averci per un po’ consolati per quel loro fratello che avevano accompagnato, e se ne tornarono alle loro case, noi restammo tanto soli senza quei figli la cui compagnia  teneva tanto uniti questa nostra famiglia e così sola e divisa quando andavano via. Sentì che la mia Ester aveva bisogno di conforto, anche se stavo lì sul divano a gustarmi un film., come spesso la sera dopo cena, e così spensi la tv e mi avvicinai a lei, seduta su quella poltrona a fissare un punto non ben definito della stanza, era triste e questo non glielo si poteva negare e così la strinsi teneramente, ormai anche i suoi capelli neri eran diventati  argentei e preziosi, come il suo sorriso, allora lei mi guardò con gli occhi lucidi e stanchi per aver pianto chissà quanto, dentro di se, per quel figlio sempre lontano e mi abbracciò  regalandomi finalmente un mite, debole e raro sorriso. Son diventata vecchia, mi disse rattristata,  rivolta a me che di anni ne avevo più di lei e quei pochi capelli e quel pizzo ormai eran divenuti d’un colore, il bianco. Ma il color roseo delle  sue guance e quella pelle del viso che con piacere immenso continuavo ad accarezzare la fece distrarre da quei pensieri e cominciò a ricordare quei giorni dei nostri primi incontri e di come io riuscì a conquistarla. Ed io l’ascoltavo perché mi svelò segreti che non mi aveva mai confessato e ne fui orgoglioso di essere stato capace di tanto, come a volte certi momenti della nostra vita sembrano sprofondare nell’oblio e poi risalgono a galla, così quasi per magia, come se il passato fosse ormai tanto lontano e poi improvvisamente così vicino. Come il pensiero di non esserci più, un pensiero vivo e forte che ci accompagnava, un pensiero importante che pur nei momenti lieti, ancor di più ci traeva il sorriso. Se riuscivamo a sorridere pensando alla fine, potevamo sorridere di tutto. Quando viene quel momento, le dicevo, è certo un momento importante ma fuggitivo, è quello che viene dopo per gli altri che dura più a lungo. Lei non si fece convinta di quel che le dicevo perché forse rifiutava l’idea d’una vita senza di me e allora mi baciò accarezzandomi le guance come quasi a voler ribadire quel tenero suo amore che ha sempre avuto nei miei confronti, ed io la strinsi a me dolcemente come proprio quei primi giorni che ci conoscemmo e che ci avevano portato a legarci per tutta la vita. E così andammo a dormire quella sera, la vidi serena e ne fui contento anche se prima di addormentarmi pensai in me “ Io sono forte, la morte, quando arriverà per me certo non mi spaventerà in quel frangente, ma lei, come sopporterà lei la mia morte? Come sentirà la minaccia poi su di lei e come saprà imitare questa mia rassegnazione così senza dolore e senza spavento? “. La accarezzai come facevo sempre prima di addormentarmi, lei mi guardò come a volermi dire qualcosa ed io la tranquillizzai “dormi” le dissi, “domani staremo ancora insieme, dormi amore mio!”.

 

Vacanza sullo Zeppelin

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Non era certo una novità, nell’Europa del 1933, vedere uno Zeppelin stagliarsi all’orizzonte, e con la sua mole fare ombra al sole. Un colosso che ormai aveva scritto le pagine più affascinanti dell’aviazione mondiale con le sue 15 tonnellate era capace di librarsi in volo con la facilità di una piuma, la massima dimostrazione di potenza, affidabilità e anche confort, in grado, allora, di solcare il cielo e le cui sorti parevano sempre più magnifiche e progressive. E così quel desiderio di una crociera per Roma, un viaggio di nozze sempre rimandato, non potevamo farcelo sfuggire  appena seppi che c’erano ancora dei posti liberi, in quello che fu il primo volo dello Zeppelin in Italia.  Eravamo sposati da poco più di un anno e portar la mia compagna lassù tra le nuvole  era qualcosa di eccezionale, per me che ero solo capace di scriverle poesie d'amore e riempirla di sogni non potevo farmi sfuggire la possibilità di realizzare questo suo e mio sogno. Partimmo così dal Lago di Costanza, dove solitamente quel dirigibile prendeva il volo, alle prime ore del 29 Maggio 1933 tra le luci di tutte quelle piccole città adagiate sul lago e la luna che lì si specchiava  a voler quasi incorniciare il nostro viaggio con un po’ di incanto. Passammo poi da Sciaffosa dove potemmo vedere le famose cascate del Reno, e alcuni giuravano di averne sentito persino il rumore dell'acqua che impattava in quel fiume, poi di notte giungemmo in Svizzera a Basilea, una città adagiata  lungo un’ansa del Reno, e anche lì la Luna, che si specchiava il quel fiume, ci volle tener compagnia. Poi proseguimmo in direzione della Francia sorvolando Besancon, la vallata del Rodano e raggiungemmo all’alba Avignone dove potemmo scorgere il ponte con quelle arcate in parte crollate e poi il Palazzo dei Papi, maestoso vederlo dall’alto, figuriamoci come sarebbe stato vederlo da terra. Scivolammo così dolcemente tra le nuvole verso il mare, passeggiando lassù tra le nuvole e godendoci il panorama, senza mai avvertire la velocita di quel dirigibile che pur superava i 100 Km all’ora, ogni tanto deliziavo la mia compagna con dolci parole sussurrate, non solo per farle passare la piccola paura di quel volo, ma soprattutto perché lei era il mio grandissimo amore. Giungemmo così a Marsiglia, la più bella città di Francia, come decantava il filosofo Schopenhauer perché talmente diversa da tutte le altre, poi  Nizza, Montecarlo e la Rocca del Principato di Monaco e continuammo, sempre meravigliati di queste splendide visioni, verso la meta. Mentre a bordo ci servivano la colazione, alle prime ore del mattino, giungemmo finalmente in Italia a Sanremo, poi da Genova col suo porto maestoso e pieno di navi passammo al piccolo porticciolo di Portofino immerso nelle verdi colline,  ancora un po’ proseguimmo verso la costa per poi continuare verso l’interno per espressa volontà del comandante che voleva regalarci una piacevole sorpresa, quella di farci scorgere dall'alto la meravigliosa Pisa con la sua piazza famosa in tutto il mondo e la sua torre pendente, e di questo noi tutti ne fummo contenti. Proseguimmo poi nuovamente verso il mare sorvolando Livorno, l’isola d’Elba che dall’alto sembrava una piccola Sicilia, poi nel pomeriggio giungemmo a Orbetello, una caratteristica penisola piena di boschi mentre  in mare si scorgeva in lontananza l’isola del Giglio. Costeggiando ancora il mare sorvolammo Civitavecchia e la campagna romana e poi finalmente scorgemmo in lontananza le sembianze di una grande Città, era Roma, la Città Eterna. Ma prima di atterrare a Ciampino il capitano Lehmann, in onore nostro e di altre coppie che avevano scelto quella crociera diciamo come viaggio di nozze, ci volle far sorvolare Roma, ancora un'altra sorpresa da questo comandante strepitoso,  e seguendo quel fiume che si intersecava con le vie tra barche e alberi che lo abbellivano di colori sgargianti e il sole che lo illuminava quasi abbagliando i nostri occhi, scorgemmo Piazza San Pietro, Castel S. Angelo, il Colosseo, i Fori Romani, eravamo estasiati nel vedere dall’alto quella città e giurammo che lì saremmo ritornati a visitarla  un giorno, magari in tempi migliori e con qualche figlio al seguito. E così dopo la visita lampo su Roma ci dirigemmo direttamente a Ciampino dove atterrammo alle 16,30 di quel 29 Maggio 1933 e il comandante tirò l’ennesimo sospiro di sollievo della sua lunga carriera, mentre noi gli porgevamo un grande ringraziamento per averci regalato quelle emozioni irripetibili. Il primo viaggio dello Zeppelin in Italia si era concluso, come previsto e senza contrattempi, dopo poco più di 16 ore di volo accolti ed omaggiati all’arrivo da S.A.R. Vittorio Emanuele III Re d’Italia e da altre autorità.

 

La guerra non la si fa, la si subisce!

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Ero rimasto ormai solo dopo l’8 settembre del 43 quando la mia famiglia fu sterminata dai nazisti, ed io non potevo più restare lì a Borgo San Dalmazzo perché i tedeschi e i repubblichini facevano spesso dei rastrellamenti e portavano via tutti i giovani che trovavano, loro dicevano per arruolarli nell’esercito ma spesso li portavano in Germania e peggio ancora li fucilavano. E così me ne andai in montagna verso Demonte dove sapevo che c’erano i partigiani. C’era da combattere questi invasori e certo non avevo più nulla da perdere. Tra quei partigiani vestiti un po’ da montanari e un po’ con divise senza mostrine conobbi il loro capo Ignazio Vian che aveva radunato più di cento uomini tra quelle montagne e lì cominciò coraggiosamente a combattere con i suoi uomini quella loro, nostra battaglia contro i tedeschi. I giorni passavano tra schermaglie, combattimenti e ritirate a scansar oltre quei colpi pure l’inverno che avanzava. Una mattina  ci allertarono dalla postazione più in basso che i tedeschi stavano salendo verso Demonte con una autocolonna ben equipaggiata pure con un mortaio e allora il Comandante mi mandò ancora più su a dare una mano nell’altra postazione dove c’era Vincenzo, un partigiano trentino che quando parlava non riuscivo a capirlo. Con i fucili mitragliatori sparavamo verso l’autocolonna che avanzava cercando di farli ritardare e magari desistere. Ma non ci fu verso, più noi si sparava e più quelli rispondevano con colpi di mortaio finché un colpo centrò lo spigolo della finestra da dove Vincenzo sparava, io sentii solo un grido e poi quel fucile tacere. Rimasi immobile, stordito e continuai a sparare a più non posso, per la rabbia, per la paura, per vendicare Vincenzo mentre quei colpi di mortaio sibilavano e sfioravano il nostro cascinale. Poi finalmente i compagni centrarono dalla postazione di giù quel mortaio e quell’autocolonna pensò bene di ritornare  a valle scornata ma tutti noi sapevamo che non era finita lì quella storia, dovevamo aspettarci un’altra incursione, magari con qualche mortaio in più e certo non avrebbero più fatto marcia indietro. Allora il Comandante ci fece  spostare verso Valdieri, attraversando tratturi anche a cielo aperto e per questo ci spostammo di notte, quando arrivammo trovammo  cascinali diroccati e superstiti impauriti  e lì ci preparammo ad un’altra battaglia. La pelle l'ho salvata, ma quel comandante poi lessi che fu arrestato e giustiziato a Torino dove s’era recato in missione e quei nazifascisti lo lasciarono  impiccato per giorni  ad un albero in Corso Vinzaglio dove, mi dissero, qualcuno appose una scritta, nei giorni della liberazione, una frase che si diceva fosse il motto di quell’eroe: Sangue di martiri, semi di eroi. Finita poi la guerra me ne tornai in Puglia dai nonni, volevo ricominciare a vivere e quella terra mi sembrò la più idonea perché ricca di sole, di mare e di tranquillità. Ma tra quei monti ci torno ancora e non potrei mai dimenticarli, perché nel mio sangue scorrono quei ruscelli, e ci torno perché i ricordi fan bene al cuore e di bontà il cuore ne ha sempre bisogno. E a chi ancora oggi mi chiede “tu hai fatto la guerra?” io gli rispondo sempre “la guerra non la si fa, la si subisce!”

 

 

 

Tranquility Base here. The Eagle has landed

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Avevo saputo da pochi giorni che m’avevano promosso e spedito in terza media, quel 20 luglio del 1969, e negli ultimi giorni di scuola si parlava di una missione spaziale che da lì a poco avrebbe emozionato tutto il mondo, lo sbarco dell’uomo sulla Luna. A 12 anni certamente si era più coinvolti in giochi vari per le strade e non in estenuanti attese dinanzi ad uno schermo bianco e nero che non sempre mandava immagini nitide. Ma quella sera seguì passo dopo passo quella diretta in tv, mi ci ero appassionato perché  quel satellite bianco e luminoso m’aveva sempre affascinato e scoprire dettagli e persone che finalmente riuscivano a calpestare quel suolo per me valeva più di andare a letto a dormire. Avevo seguito la missione, nei servizi del telegiornale, fin dalla partenza quel 16 luglio quando un gigantesco razzo vettore di 100 metri e forse più s’alzò dal centro spaziale Kennedy in Florida, con a bordo i tre astronauti Armstrong, Collins e Aldrin, lasciando dietro di se una scia di fumo e fiamme, la missione dell’Apollo 11 era appena iniziata. Non si parlava d’altro nei telegiornali e anche con gli amici, perché avevamo il sentore di essere stati fortunati a vivere in quella era che ci spalancava scenari inimmaginabili. Tutte le sere seguivo l’andamento della missione fino a quella sera del 20 luglio quando Apollo 11 arrivò nell’orbita lunare, Armstrong e Aldrin salirono sul modulo lunare e si sganciarono dal modulo di servizio  dove rimase il pilota Collins. L’Eagle, come venne battezzato quel modulo lunare, toccò il suolo lunare in una zona chiamata Mare della Tranquillità, in Italia erano da poco passate le 22,00 ed io seguivo in trepidante attesa davanti a quella tv bianco e nero, le voci che si percepivano appena dalla base di Houston  e tradotte dal giornalista Tito Stagno e quella frase che riuscimmo a captare pur se non in italiano pronunciata dal comandante Armstrong verso la base di Houston e che ci preannunciava: “Tranquility base here, the Eagle has landed”. Quanto ho sognato in quel momento di stare lassù in quel modulo lunare, e di poter apporre la mia impronta su quel suolo così distante  e così tanto affascinante! Le immagini che ci giungevano a volte nitide ci rimasero impresse per quelle ore della notte prima di vedere, ormai all’alba del 21 luglio in Italia, quella scaletta da cui scese prima Armstrong e quel piede che con un saltello poggiò per primo sulla Luna. Tito Stagno che ci tradusse quella frase rimasta  storica che pronunciò il comandante appena toccò il suolo: “Questo è un piccolo passo per un uomo ma è un grande balzo per l’Umanità”. Poi anche Aldrin seguì il comandante e insieme sistemarono le varie apparecchiature scientifiche e   piantarono la bandiera degli Stati Uniti d’America. Quante volte ho rivisto quelle immagini, e quante volte ancora oggi sogno di poter un giorno andare lassù anch’io. Da allora feci incetta di ritagli di giornali e poster vari e persino quell’adesivo della missione, che mio padre riuscì a procurarsi da un distributore di benzina, lo custodì gelosamente. Di quella missione, che mi lasciò affascinato, ancora oggi ne parlo  con entusiasmo anche se certe teorie vorrebbero cancellare quei giorni fantastici attribuendo il tutto a video montaggi effettuati negli studi cinematografici, ma io continuo a vedere dinanzi agli occhi quell’impronta ben nitida sul suolo, la bandiera tesa come fosse di legno, quel casco a specchio di Aldrin che rifletteva l’Eagle  appoggiato sul suolo lunare illuminato di luce argentea dal sole. Bufala o non bufala, mi piace immaginare, pensare, credere che quella storia fosse vera,  altrimenti perché quel giorno avrei dovuto consumare ore della mia vita incollato dinanzi alla tv fino all’alba?

Avventura sul Mont Blanc

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Quando Paccard disse a Balmat che mi avrebbero portato con loro lassù su quella vetta che dominava Chamonix, io non sapevo se piangere  di contentezza  o  se  correre  subito a casa a preparare tutto l’equipaggiamento  e a dirlo a tutti nel mio paese. E così ci vedemmo il giorno dopo, prima di cominciare la salita, per salutare il Barone Von Gersdoff che  si propose di seguire la nostra avventura con un binocolo da su un poggio di Chamonix e di annotare tutto in un diario. Non stavo nella pelle, quella notte non riuscii a dormire. Il fatidico giorno arrivò e mi sentivo sicuro al fianco di quei due supremi scalatori e conoscitori di quella montagna. Tuttavia il mio equipaggiamento non mi consentiva di portar con me qualcosa che potesse servirmi per annotare le mie impressioni lungo il percorso perché diceva Balmat che quando si sale sui monti bisognava essere leggeri col corpo e con la mente e così avrei potuto mettere tutto ciò che mi passava davanti agli occhi, tra le mani, sotto i pedi, lì nella mia testa e ogni tanto esercitare la mia mente a ricordare quello che facevo per proseguire sempre diritto verso la vetta senza perdere di vista i miei maestri. Quella notte appena trascorsa si fece meno buia e  le stelle poi fuggirono via, andavamo sicuri per la salita e sentivo quei due che tra loro si scambiavano i consigli a volte anche con modi un po’ esagitati per poter affrontare nel miglior modo possibile il percorso. La vetta era ancora lontana e la si vedeva avvolta tra le nuvole quando il sole tra quelle riusciva a passare, Balmat si fermò di colpo, triste in volto,  voleva tornare indietro ma non disse a nessuno il perché, poi si saprà che  aveva sua figlia molto malata e che purtroppo non la trovò più in vita, ma Paccard non conoscendone il motivo lo convinse a continuare, dovevamo scrivere la storia prima di tutto, gli diceva. E continuammo, mentre  le ore passavano, con  l’indomito  spirito di raggiungere quella vetta che ci faceva superare tutte le difficoltà e affrontare gli ostacoli con una naturalezza a volte inspiegabile per la nostra ragione. Raggiungemmo la vetta quel 8 agosto del 1786 alle 18,23 segnava l’orologio di Paccard che fu il primo a calpestare la neve su quella cima dopo quattordici ore e mezza dalla partenza. Noi tre, i primi a salire su quella maestosa vetta.  Ed io lassù mi giravo intorno e non mi sembrava vero, quel sogno s’era avverato, ero sul tetto delle Alpi, e quel famoso Mont Blanc tanto agognato era ai miei piedi e non riuscivo neanche a sentir freddo sul mio corpo, volevo solo gridare a tutto il mondo la mia contentezza, ma mentre cercavo di riprendermi da questa forte emozione mi accorsi di esser rimasto improvvisamente solo su quella vetta,  Paccard e Balmat erano svaniti nel nulla, ero rimasto con la mia piccozza e lo zaino e un cappello che a mala pena mi copriva la testa, tutte quelle vette ai miei piedi senza poterle immortalare in un disegno o scriverne su un diario e sconsolato, per essere rimasto solo, così feci passare quegli ultimi minuti lassù godendomi quella aria fine che ora nelle ossa cominciavo a sentire tra quel bianco accecante. E prima che mi ponessi il problema di dover trovare la strada per la discesa e di affrontare quell'impresa ormai da solo,  un suono ripetuto e martellante mi scosse e  mi riportò subito nel futuro.

 

Ad El Alamein con mio padre

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Ho comprato i biglietti per Alessandria, domani andiamo ad El Alamein, dissi tutto d’un botto a mio padre, appena arrivai a casa quel venerdì sera di qualche anno fa, lui mi guardò dapprima stupito poi, alla vista dei biglietti,  rimase meravigliato e, come notai dai suoi occhi lucidi, vidi che un po’ pure si commosse. Come t’è venuto? Furono le uniche parole che riuscì a tirar dalle labbra e poi non sapeva se abbracciarmi per la contentezza o chiudersi in un silenzio pensante, come era solito fare negli ultimi tempi, ed optò per la prima reazione e pur i miei occhi allora si bagnarono un  po’ per averlo accontentato. Il giorno dopo preparammo tutto in due borsoni e lui portò con se, ovviamente,  tutte quelle sue citazioni e altro che aveva scritto  quando in quei posti combatté e che sapientemente aveva dattiloscritto ai tempi del suo impiego in biblioteca per tramandarli, fiero, a noi figli. E così il giorno dopo partimmo per Roma e di lì in volo per Alessandria Borg el Arab, in Egitto.  In  volo con mio padre verso quei posti così tanto da lui decantati, narrati e…sofferti, non sembrava vero neanche a me! Il sole ci accolse con i suoi raggi ben più caldi delle nostre abituali latitudini e già questo mi fece subito pensare come fossero stati per quei soldati allora quei giorni interminabili di battaglie in quei luoghi. Prendemmo un taxi che ci portò attraverso la Alex-Marsa Matrouh costeggiando le coste egiziane del Mediterraneo verso la meta El Alamein. Lungo il tragitto con il tassista, che parlava un po’ di inglese, scambiai qualche frase cercando di carpire qualche sua impressione su questi ripetuti pellegrinaggi che noi italiani in quei luoghi facciamo e francamente mi meravigliò che delle gesta degli italiani lui ne parlasse con una sorta di ammirazione forse perché un po’ edotto dalla storia su come si  evolsero quei giorni di quelle aspre battaglie. Allora ne approfittai di questa sua disponibilità e ci facemmo accompagnare nei posti salienti di quei luoghi e quindi  prima lungo la litoranea dove ancora resti di aerei, di carri armati e di camion mostravano a cielo aperto lo scempio della guerra e poi arrivammo al Sacrario dei caduti italiani che si trovava qualche Km verso Ovest da El Alamein. Vidi mio padre con le mani sul suo viso a cercar in forma quasi di preghiera di bloccare una vera e propria convulsione di pianto mentre attraversavamo  quelle arcate che in fondo portavano alla torre ottagonale. Mi raccontò del Battaglione misto Genio a cui apparteneva la sua Compagnia  Marconisti e Telegrafisti, il motto "Labore ac studio" e di alcuni suoi compagni che aveva perso di vista dopo la prigionia e che sperava di non vedere tra quei resti...Con la mia mano sulla sua spalla riuscì solo a sussurrargli che ci tenevo tanto perché lui stesso potesse vedere  quello che noi ora stavamo vedendo e che potesse quindi ringraziare  Dio per non essere tra quei cinquemila li raccolti in una quadratino con i resti di quei soldati  e con su scritto solo un nome o peggio ancora solo la parola Ignoto. Si fermò un attimo e mi lesse alcune strofe di quanto lui aveva scritto su quella battaglia del '42 e non sempre riuscivo a capire quello che diceva perché il groppo alla gola non gli permetteva di leggere disinteressato. Io lo ascoltavo e ne andavo fiero perché avevo avuto la fortuna d'un padre così sensibile e di ragguardevoli doti. E sera ormai quando ritornammo verso Alessandria non senza aver prima ringraziato a dovere quel tassista così incline ad aiutarci. Mio padre non riusciva ad esprimere le sue emozioni, era lì con lo sguardo all’infinito, assente, forse era talmente stato toccato da quella sconvolgente giornata che non riusciva a liberare la sua mente verso altri pensieri. Non riuscivo anch’io a darmi pace nel vederlo così sconvolto e quasi maledicevo quel giorno che m’era venuto in mente di fargli quella sorpresa.  E mentre me ne stavo in silenzio accanto a lui mi disse d’un botto: “ hai visto all’ingresso del Sacrario una targa! ” No, gli dissi, non ci ho fatto caso, e lui fiero, spavaldo e finalmente un po’ sorridente mi disse: “c’era scritto il soldato tedesco stupì il mondo, quello italiano stupì il soldato tedesco! “

California dreamin'

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Ti sogno California e un giorno io verrò!  Tra i primi motivetti che ascoltavo alla radio nella mia adolescenza e che senz'altro ha avuto il pregio di conficcarsi nella mia testa perché oltre ad essere un bel motivetto, sapeva farmi sognare sulle ali di quelle parole e di quella sinfonia trasportandomi laggiù a seguire quel desiderio mai nascosto di visitare tutti quei posti della California, rimasti da sempre come un sogno quasi irrealizzabile. E così non mi feci sfuggire l’occasione, appena la fortuna si tolse la benda e mi regalò due biglietti proprio per la California, lo stato dell’oro e del sole. Il tempo di organizzare il viaggio e gli alberghi tramite un’agenzia e via subito per Roma dove al mattino presto partimmo verso lo scalo di Zurigo e poi di là nel pomeriggio verso Los Angeles dove giungemmo alle prime ore della sera ma con 20 ore di volo complessive per via del fuso orario. Catapultati d’un botto in una nuova realtà, anche se più frenetica della nostra, ma colma di piacevoli esperienze che ci avrebbero da lì a poco trasportati verso un viaggio indimenticabile. Da amante della montagna cercai subito un tour che ci portasse sulla bianca Sierra Nevada dove respirammo quel fresco vento che pur d’estate copriva il caldo asfissiante della costa, immaginando di stare tra le alte vette delle Alpi e invece eri lì in California ad un tiro di fucile da quelle spiagge sempre affollate e accaldate di passioni. Il giorno dopo in viaggio seguendo  il fiume Sacramento, con al seguito personaggi vestiti in modo strano e attrezzature a dir poco antiquate, ce ne andammo alla ricerca di quell'oro che speravamo qualcuno avesse potuto abbandonare magari di tutta fretta per sfuggire  ai banditi e proprio tra i meandri di quel fiume  scoprì una pepita d’oro o così mi pareva quella pietra strana e luccicante sotto i miei piedi  dalle  sembianze di quel prezioso metallo. Poi, con mio disappunto si rivelò una vera e propria patacca, ma la portai con me lo stesso e ne sfoggio ancora oggi come un prezioso cimelio. Però fu bello, anche per pochi attimi, poter avere la sensazione di toccare con le mani una pepita d’oro. Con l’oro negli occhi e con la fantasia tra le mani ritornammo stanchi ma soddisfatti in quel frastuono di luci che abbagliavano la mente e i suoni che ci trasportavano verso mondi inesplorati, la grande Los Angeles. Al mattino seguente volemmo evadere completamente da quel mondo e cosa  poteva fare al caso nostro se non una bella gita nel Parco Yosemite? Tra le giganti sequoie e quel panorama mozzafiato ai piedi di quella cascata imponente immortalata nelle foto di rito, facemmo una bella scorta di quelle goccioline di fresco che da su precipitavano. Gustammo un bel picnic sdraiati in quel parco che ancora oggi lo ricordiamo con molta nostalgia e con qualche rammarico per l’impossibilità a poterci spesso ritornare. Tra le strade di San Francisco passammo poi tutta la giornata successiva, tra le sue ripide colline e le sue strade vertiginose attraversando la città  con quei tram unici al mondo tra la fresca nebbia che avvolgeva i suoi paesaggi e quelle macchine di polizia che sembravano stessero girando qualche film. Anche quei momenti, pur se caotici, ci restarono impressi nella mente, San Francisco fu la città più bella che in quel viaggio noi visitammo. Certo poi non potevamo visitare la città che ci ospitava, Los Angeles, e la tanto osannata collina di Hollywood,  e Beverly Hills con le star appollaiate nelle loro ville rintanate per non  farsi fotografare da paparazzi venuti da tutto il mondo. Sempre quella sensazione di essere capitati in una scena di film, visti e rivisti un sacco di volte, quelle macchine di polizia ferme ai bordi della strada, armati di tutto punto, ci si guardava in giro cercando qualche macchina da presa ma invece era tutto realtà. A Pasadena, il giorno dopo, visitammo il  laboratorio della Nasa con tanti prototipi ancora da perfezionare e poi tutte quelle sonde spaziali lanciate in giro per l’universo. Mi venne in mente di  chiedere al nostro accompagnatore Fred se sarebbe stato possibile programmare con quegli scienziati una prossima crociera sulla Luna, con  noi viaggiatori, ovviamente. Al che Fred non ci mise tanto a darmi una risposta abbastanza eloquente imputando quella domanda al nostro essere italiani un popolo di sognatori romantici. Mi piacque la sua risposta e anch’io annuì anche se con la fantasia tutti vorremmo un giorno andarci sulla Luna! Nel pomeriggio poi visitammo ancora un posto fuori dalla norma, l’osservatorio astronomico di Monte Wilson, ideale da lassù, per l’aria particolarmente secca, l’osservazione astronomica e solare. Come si poteva arrivare fin lassù senza godere di una vista dell’universo così perfetta, immensa e inusuale per i nostri occhi? Quelle nebulose  che si stagliavano dinanzi ai nostri occhi come nei documentari visti in tv,  Marte, Venere e poi Saturno, Giove, il Sole e quella Luna che anche se per un quarto visibile mostrava quei crateri a poca distanza dai nostri occhi. Che giornata affascinante, potevamo solo ringraziare quel biglietto da noi pagato per aver visto quelle meraviglie. Tornammo in albergo soddisfatti per un’altra giornata entusiasmante e tra le vie di Los Angeles ci imbattemmo in una sorta di palchetto che esponeva dei manifesti e degli inviti a firmare l’abolizione in quello stato della pena di morte. C’era tanta gente che si fermava e proprio non riuscimmo ad eludere quell’invito che ci ponevano pur avendo capito che noi fossimo americani. Dissi loro che quella richiesta era sacrosanta perché la pena di morte era solo uno scempio, una pecca, una macchia indelebile per loro che erano costretti a conviverci in quello Stato. Mi lasciò il suo numero di telefono e la sua email, Daniel ed io a lui i miei, ancora ci sentiamo dopo tanti anni, le loro battaglie durano ancora e sempre più intraprendenti, perché la voglia di cancellare quella vendetta legalizzata, come la chiamavano quei ragazzi, era troppo forte e radicata e prima o poi avrebbe fatto presa in quella loro civiltà così evoluta ed emancipata.  Mi piacque chiudere in quel modo il nostro soggiorno in California, con un po’ di dispiacere salimmo su quell’aereo che ci riportò nel ritorno a Roma. E ancora m’assale nella mente quel motivetto della mia adolescenza, sognando la California e non poteva essere diversamente per chi la California l’aveva sempre sognata e descritta pur a occhi aperti.